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Chiesa gesuita di Roma: SANTISSIMO NOME DI GESU’ (IL GESU’)

 

Simbolo della Compagnia di Gesù e chiesa “gesuita” per eccellenza perché legata alla memoria della presenza romana di S. Ignazio di Loyola, venne edificata nel luogo scelto dal santo come chiesa madre dell’ordine da lui fondato e intitolata al Santissimo Nome di Gesù, ma da tutti conosciuta semplicemente come il Gesù.

L’area prescelta per la costruzione era allora divisa in due isole di case tra la via Capitolina, piazza degli Altieri e via degli Astalli, secondo l’antica toponomastica.

Vi si trovavano due chiese di origine medievale, di cui una, Santa Maria della Strada era stata concessa con beneficio parrocchiale da Paolo III alla neonata Compagnia nel 1541, appena un anno dopo che con la bolla Regimini militantis (emessa il 27 settembre 1540) il papa aveva istituito quello che sarebbe divenuto uno degli ordini più importanti nella storia della chiesa: la Compagnia di Gesù.

Ignazio di Loyola tornato a Roma dopo un’assenza di quattordici anni, nel 1537, insieme agli antichi compagni del tempo degli studi universitari a Parigi, divenuti confratelli, si era sistemato prima in una casa dei Frangipane in piazza Margana, poi, per essere più vicino alla chiesetta di Santa Maria della Strada, in uno stabile malandato di proprietà di Camillo Astalli. Dato lo stato fatiscente della piccola chiesa e lo scarso spazio a disposizione dei fedeli Ignazio prese la decisione di costruire una nuova chiesa. Nel 1550 però, dopo aver acquistato un terreno e avere pronto il progetto disegnato da Giovanni di Bartolomeo Lippi, Loyola si vide negare il permesso di costruire dai Maestri delle Strade e, nonostante l’acquisto successivo di un nuovo terreno e il riposizionamento dell’edificio da costruire (questa volta addirittura su progetto del vecchio Michelangelo che aveva donato un suo disegno alla Compagnia), nel 1554 Ignazio fu costretto a rinunciare ancora una volta a realizzare la chiesa per nuovi sopraggiunti divieti. Accadde così che S. Ignazio di Loyola il 31 luglio del 1556 morì senza aver veduta neppure iniziata l’opera.

Finalmente, nel 1568, divenuto grande committente e finanziatore della Compagnia il cardinale Alessandro Farnese, l’opera si annunciava maestosa, secondo il progetto redatto da Jacopo Barozzi da Vignola, architetto dei Farnese. Il cardinale però volle scegliere personalmente il progetto per la facciata e avendo optato per quello di Giacomo Della Porta causò le dimissioni del Vignola nel 1571. Il cantiere proseguì comunque sotto la guida dell’architetto dell’ordine, il gesuita Giovanni Tristano e, alla sua morte dell’architetto Giovanni de Rosis, anche lui gesuita, con la supervisione di Della Porta. La consacrazione del tempio, detto anche Farnesiano, avvenne il 25 novembre 1584.

La facciata, compiuta entro il 1577 è a due ordini ripartiti da paraste corinzie binate e nicchie. Il primo ordine è caratterizzato da intervalli di colonne binate di cui le quattro centrali in corrispondenza del portale principale sorreggenti un doppio timpano; sui portali minori le statue in stucco di Sant’Ignazio e San Francesco Saverio.

Il secondo ordine porta in corrispondenza del doppio timpano sottostante un finestrone con balaustra e timpano; volute di raccordo sui lati raggiungono il frontone triangolare con lo stemma farnesiano. Lungo l’architrave tra primo e secondo ordine corre la scritta commemorativa del committente con la data 1575.

Sul portale principale fu collocato nel 1576 dai gesuiti l’emblema del Nome di Gesù realizzato in marmo e bronzo su disegno di Bartolomeo Ammannati.

L’interno, a una sola grande navata ripartita da paraste binate e fiancheggiata da ampie cappelle (tre per lato), ha la volta a botte.

Ed è proprio la grandiosa decorazione delle volte – la gigantesca scenografia, capolavoro di Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccio –, ad attrarre irresistibilmente l’attenzione di chi entra nel tempio.

Questo ciclo di affreschi è una strepitosa macchina barocca, tra le più belle eseguite a Roma nel Seicento: il concorso tra la pittura illusionistica e la complessa decorazione in stucco, impiegata nel contrasto cromatico di bianco e oro dei suoi diversificati elementi, genera un riuscito continuum in rapporto allo spazio architettonico circostante evidenziato dalle sedici sculture in stucco che collegano la zona delle finestre alla volta stessa.

È Gian Lorenzo Bernini – che ricopriva un ruolo estremamente importante all’interno della Compagnia di Gesù –, a consigliare il padre generale Giovan Paolo Oliva, suo amico ed estimatore oltreché appassionato d’arte e responsabile dei progetti artistici dell’ordine, a scegliere per gli affreschi del Gesù il Baciccio, giovane artista genovese del suo entourage.

Giovanni Battista Gaulli (1639-1709) riceve dal suo maestro e mentore Bernini (nonché probabile regista occulto dell’impresa), le indicazioni per realizzare l’articolata decorazione, mentre i padri assegnano il tema: la missione salvifica della seconda persona della Trinità. Per la prima volta l’ordine esprime i propri ideali non attraverso testi scritti ma con la pittura, che in modo efficace e meraviglioso diviene il mezzo per ribadire la vittoria trionfalistica della Chiesa cattolica sull’eresia.

Gaulli in pochi anni trasforma l’interno spoglio della grande chiesa in una festosa celebrazione. Tra il 1676 e il 1679 è completata la spettacolare volta della navata con il Trionfo del nome di Gesù: dal cerchio luminoso, simbolo della Compagnia, si irradia la visione del cielo che sembra irrompere dal tetto aperto della chiesa al suo interno con schiere di beati, santi, angeli, mentre i dannati in un groviglio di corpi precipitano verso il basso. L’effetto illusionistico della prospettiva aerea in cui si muovono i gruppi di personaggi, le figure audacemente scorciate dipinte dal Baciccio con un timbro squillante, vanno a costruire e graduare gli spazi con straordinaria efficacia.

Il programma iconografico dettato dai padri è eseguito in sequenza: nella cupola l’artista dipinge, tra il 1672 e il 1675, Il Paradiso inneggiante a Gesù, tra il 1675-76 i pennacchi con i Profeti, Legislatori e Capi d’Israele, I quattro Evangelisti, I quattro Dottori della chiesa.

Nell’abside (realizzata tra il 1680-82) è raffigurata la Gloria dell’Agnello Mistico, una rara iconografia derivata dai mosaici di Santa Prassede; nella volta del presbiterio, del 1683, sono rappresentati di Angeli musicanti, mentre nella volta del transetto sinistro (1685) è Sant’Ignazio in gloria.

Gli autori materiali delle stupefacenti decorazioni in stucco, statue comprese, sono: Antonio Raggi, Leonardo Retti, Michele Maille e Pietro Paolo Naldini.

L’intera area della tribuna rimase disadorna per oltre due secoli: i lavori di abbellimento furono intrapresi dai padri quando, dopo il forzoso allontanamento in seguito alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773-1814), rientrarono in possesso della chiesa. Fu l’architetto Antonio Sarti tra il 1841-43 a ricostruire l’altare maggiore e a ristrutturare l’intero ambiente. Interprete debole dei principi neoclassici rimediò alla carenza d’ispirazione con un uso abbondante di marmi rari e pregiati.

Del vecchio altare reimpiegò, come gli fu imposto, le quattro colonne di giallo antico allineandole su un unico piano e raccordandole con la trabeazione dal timpano triangolare sormontato da cinque statue: due Angeli genuflessi e tre alla sommità che recano il monogramma del Nome di Gesù. Al posto della magnifica pala d’altare con la Circoncisione dipinta da Gerolamo Muziano (1587-89) – commissionata appositamente dal cardinale Alessandro Farnese e celebrata da tutti per la sua bellezza ma ritenuta all’epoca della ristrutturazione non rispondente ai canoni in voga del XIX secolo (è ora conservata nella Galleria dei Marmi) –, fu posta sull’altare una scialba tela di Alessandro Capalti di stesso soggetto.

La risistemazione della tribuna portò al sacrificio da parte del Sarti anche del monumento funebre di San Roberto Bellarmino commissionato dal cardinale Odoardo Farnese, disegnato da Girolamo Rainaldi ed eseguito da Pietro Bernini con la collaborazione, per il busto, del figlio Gian Lorenzo. Solo il busto fu rimontato, a sinistra, tra due altorilievi di Adamo Tadolini.

A sinistra della tribuna è la Cappella dedicata alla Madonna della Strada in ricordo della chiesina originaria demolita. Ricchissima di marmi per il desiderio delle sue patronesse, Beatrice e Giovanna Caetani con Porzia Orsini, conserva nel vano dell’altare, entro una cornice marmorea, l’immagine della Madonna della Strada, affresco quattrocentesco staccato dalla vecchia chiesa. Alle pareti vi sono sette tavole raffiguranti episodi della vita della Vergine dipinti da Scipione Pulzone  su progetto e collaborazione di Giuseppe Valeriani nel 1584-89.

A destra della tribuna è la cappellina del Sacro Cuore che porta sull’altare il notissimo dipinto su rame di Pompeo Batoni (1760).

Il transetto destro accoglie la cappella di San Francesco Saverio; realizzata tra il 1672 e il 1678 da Luca Berrettini è dominata dal grande altare: quattro grandi colonne di marmo rosso venato i cui capitelli corinzi portano la trabeazione coronata da un timpano curvilineo spezzato con al centro l’immagine di San Francesco Saverio portato in cielo dagli angeli. Sull’altare la pala del 1679 di Carlo Maratta raffigura San Francesco Saverio moribondo nell’isola di Sanciano.

Nel transetto sinistro s’innalza la grandiosa e spettacolare cappella-altare che la Compagnia di Gesù ha dedicato a S. Ignazio di Loyola qui sepolto.

Completamente rifatta tra il 1695 e il 1699 su progetto del padre gesuita Andrea Pozzo, che ne diresse anche i lavori, era originariamente dedicata al Crocifisso e la sua decorazione portava la firma di  Giacomo Della Porta e di Pietro da Cortona.

L’altare è caratterizzato da un’elaboratissima decorazione  su cui spiccano le due coppie di alte colonne dai capitelli compositi sistemate in posizione fortemente aggettante le cui scanalature profilate di bronzo dorato sono rivestite di lapislazzuli.

Sormonta la trabeazione un timpano curvilineo spezzato al cui apice si trova la Trinità in marmo e bronzo, opera del 1726 di Lorenzo Ottoni e Bernardino Ludovisi sul modello in stucco di Leonardo Retti.

Al centro il tabernacolo è dominato  dalla nicchia rivestita di lapislazzuli con catino a conchiglia sormontato da due Angeli (di Pierre Etienne Monnot) che portano il monogramma di Gesù. La statua di S. Ignazio, modellata in stucco nel 1803-4 dal bolognese Luigi Acquisti sotto la direzione di Antonio Canova, sostituisce la precedente in argento (eseguita da Pierre Le Gros), fusa nel 1798 in seguito al Trattato di Tolentino di cui fu conservata la sola pianeta, considerata di povera lega, che attualmente la riveste. Anche gli Angeli di stucco argentato che circondano la statua sostituiscono quelli d’argento di Le Gros andati perduti nella stessa occasione.

Sul basamento rivestito in marmo sono posti i rilievi in metallo dorato che illustrano la vita del Santo. Sotto la mensa è deposta l’urna con il corpo di Sant’Ignazio: in bronzo dorato e sbalzato è opera di Alessandro Algardi del 1637 che vi raffigurò sul fronte Sant’Ignazio circondato dai Santi della Compagnia.

La bella balaustra in bronzo dall’andamento curvilineo il cui disegno estremamente mosso rielabora un modulo di base – una curva a C terminante sia ad uncino che a racemi di acanto inframmezzati da ghirlande di frutti e fiori – è un ornamento del 1696-99 anticipatore dell’arte Rococò ed è frutto del lavoro di molti artisti che la realizzarono sulla base del progetto unitario di Andrea Pozzo.

La SACRESTIA (1599-1623), progettata da Gerolamo Rainaldi su commissione del cardinale Odoardo Farnese, è un vasto ambiente di forma rettangolare chiuso ai lati da grandi armadi di noce che conservano preziosi arredi tra cui le statuette di Santi in bronzo dorato opera di Ciro Ferri del 1687, e la stupenda “casula” in seta ricamata dono del cardinale Alessandro Farnese. Sull’altare il dipinto con Sant’Ignazio è stato ritenuto erroneamente di Annibale Carracci. La volta mostra, all’interno di una fastosa cornice in stucco dorato, un affresco di Agostino Ciampelli: l’Adorazione del Santissimo Sacramento.

La GALLERIA DEI MARMI si raggiunge dall’atrio: qui vi fu trasferita la pala dell’altare maggiore, la notevole Circoncisione di Girolamo Muziano, di cui si è già parlato; nel 1991 è stata restaurata rivelando appieno il suo altissimo valore, d’altronde riconosciuto già dai contemporanei.

 

 

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