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La Basilica Superiore e le Storie di San Francesco

Le grandi bifore con le antiche vetrate istoriate rendono l’unica navata molto luminosa, mentre l’arioso spazio viene tranquillamente ritmato dal semplice avanzare delle quattro campate, divise e misurate dalle triplici colonnine che formano i pilastri, da cui, in alto, spiccano come rami i costoloni delle volte a crociera, coronando la lunga prospettiva verso l’abside poligonale e il transetto.

Le pareti, ad una certa altezza, rientrano formando un ballatoio che gira intorno alla navata, sale – sopra il portale – al piano sottostante la rosa della facciata, mentre nei bracci della crociera passa sotto archi trilobati.Questa parte “bassa” delle pareti – che in virtù del ballatoio risulta leggermente  aggettante – sembra essere stata predisposta così, durante la costruzione della basilica, proprio per fare da supporto a un ciclo di affreschi. Quelli che la tradizione e numerosi testi storiografici – Ghiberti e Vasari soprattutto – attribuiscono a Giotto.

Infatti, tra le opere più problematiche e discusse riferite a Giotto giovane ci sono appunto gli affreschi della basilica superiore. È dalla seconda metà del Duecento che s’avvia la complessa attività decorativa nella basilica superiore: iniziata verso il 1277 sotto il pontificato di papa Niccolò III (1277-1280), con un’interruzione per un periodo dopo il 1280, i lavori riprendono nel 1288 grazie al papa Niccolò IV (1288-1292) – il primo papa francescano – che rinnova ai frati la possibilità di usufruire delle elemosine dei fedeli per affrontare le spese.Il programma decorativo, articolato e complesso, è stato nei secoli – ed è tuttora –oggetto di intensi studi e di discussioni a proposito delle attribuzioni ai diversi maestri che vi hanno partecipato con i loro cantieri.Sembra che ad iniziare le pitture con le Storie degli Apostoli (transetto destro) sia stato un artista anonimo: il “Maestro oltremontano”, probabilmente non italiano poiché dal linguaggio marcatamente gotico. Le sue architetture dipinte sembrano voler continuare le reali con un affascinante gioco di “finzioni”.

Cimabue (Cenni di Pepo, 1240-1302), forse nel 1280, subentra affrescando la parte inferiore del transetto destro, il sinistro, l’abside e le volte con il suo segno robusto tipicamente medievale, appena mitigato da una certa classicità, completando le Storie degli Apostoli, Apocalisse, Storie della Vergine Maria, Evangelisti.Di straordinario impatto emotivo la Crocifissione (350x690 cm) del transetto sinistro. Qui Cimabue realizza un’opera di alta drammaticità per gli atteggiamenti dei personaggi e per l’ambientazione. La scena, molto affollata, ha il suo centro nella croce che la divide esattamente a metà. La figura serpentinata del Cristo è tragicamente investita dal vento che agita il suo perizoma; la tensione drammatica è accentuata dalla figura della Maddalena che mostrando tutta la sua disperazione leva le braccia tese al cielo, mentre san Francesco accasciato ai piedi della croce appare prostrato dal dolore.

La cattiva conservazione di questo affresco – dovuta ad infiltrazioni di umidità e alla presenza di ossido di piombo – ha reso la scena ancora più carica di pathos poiché i colori hanno subito un viraggio tanto da dare un risultato di negativo fotografico: le tonalità cromatiche hanno subito un’inversione di modo che i chiari sono divenuti scuri e i toni scuri oggi ci appaiono chiari. Questo ha creato una atmosfera assai particolare, certamente non voluta dall’autore, ma che rende quest’opera veramente unica e affascinante.La decorazione della navata inizia dopo il maggio del 1288 con la pittura parallela e contemporanea del registro superiore delle due opposte pareti: a sinistra dal transetto con le Storie dell’Antico Testamento e a destra del Nuovo Testamento. Sono impegnati in questa opera vari pittori, alcuni seguaci romani e toscani di Cimabue, tra cui predomina il romano Jacopo Torriti, mosaicista, oltre che pittore, il quale svolgerà un ruolo determinante nel rinnovamento della pittura a Roma alla fine del Duecento. A Torriti e ai suoi collaboratori sono attribuite le pitture delle prime due campate partendo dal transetto, comprendendo la Volta dei santi e la Cacciata dei progenitori dall'Eden nella fascia superiore della terza campata di destra.

A questo punto sembra inserirsi un altro maestro provvisto di uno stile più moderno, con un senso spaziale nuovo accompagnato a volumi solidi e a volti espressivi e chiaroscurati che realizza alcune scene della terza campata, in particolare il cosiddetto dittico delle Storie di Isacco, quindi la Salita al Calvario e Crocifissione; e della quarta, Uccisione di Abele, Giuseppe gettato nel pozzo e Giuseppe riconosciuto dai fratelli, Gesù tra i dottori e Battesimo di Cristo, Deposizione e Resurrezione. Anche la Volta dei Dottori con gli articolati quanto metafisici troni (che il terremoto del settembre del 1997 ha fatto crollare e che un lungo quanto eccezionale restauro ha in parte recuperato), e la porzione della controfacciata con la Pentecoste e l’Ascensione, sono da ascriversi a questo maestro e alla sua bottega. 

Un artista dalla sensibilità matura ed esperta – oltre che raffinata ed elegante – di cui si avverte la cultura classica, capace inoltre di costruire le proprie composizioni architettonicamente. A costui è stato dato il nome di “Maestro di Isacco”. La critica ha avvicinato questo artista all’autore delle Storie di san Francesco dipinte nella fascia laterale della stessa basilica superiore di Assisi.Di chi si tratta? Di Giotto, o no? La secolare querelle che ha avuto come risultato di creare fra gli studiosi due fronti opposti, ancora oggi non è affatto sopita. La corrente critica che sostiene il nome di Giotto (1267-1337), tenendo anche conto delle affinità stilistiche con le sottostanti Storie di san Francesco, si contrappone ad altre proposte di tutto rispetto che identificano il Maestro di Isacco in Pietro de’ Cerroni, detto Cavallini (di cui si hanno notizie tra il 1273 e il 1321ca.), o in Arnolfo di Cambio (1245-1302), architetto e scultore e probabilmente anche pittore, o in un altro ignoto romano.

Questa questione resta quanto mai spinosa, poiché alcuni studi recenti tendono a ritenere, clamorosamente, che le Storie di san Francesco non siano di Giotto o perlomeno che abbiano concorso a dipingerle molte mani. Gli studiosi Bruno Zanardi e Federico Zeri hanno indicato in Pietro Cavallini l’autore degli interventi riguardanti soprattutto alcuni volti che rivelerebbero il modo tipico di questo maestro di eseguire gli incarnati.È molto probabile, come del resto era in uso all’epoca, che Giotto abbia eseguito il disegno delle varie scene, la loro composizione, e poi altri siano intervenuti nella stesura pittorica. Che siano stati allievi o addirittura il cosiddetto secondo capobottega, cioè Pietro Cavallini, non tutti sono però concordi nell’affermarlo.

Gran parte della critica ha comunque segnalato la sempre minore partecipazione di Giotto al complesso: ciò si nota soprattutto a partire dalla scena che descrive la morte di Francesco, il cui viso sarebbe ascrivibile a Pietro Cavallini, e nei visi degli altri personaggi, angeli compresi, che rivelerebbero interventi di due diversi aiuti. L’attribuzione del complesso delle Storie di san Francesco esclusivamente a Giotto non è in effetti sostenuta da alcun documento diretto. Un’antica fonte – Riccobaldo Ferrarese, nel 1312 – ricorda un lavoro di Giotto fatto per la chiesa di Assisi, ma non specifica quale, dice semplicemente: ”opera facta per eum in Ecclesia Minorum Assisii”. Poi, nel 1450 circa, Lorenzo Ghiberti nei suoi Commentarii afferma che Giotto “dipinse nella chiesa di Asciesi nell’ordine de’ frati minori quasi tutta la parte de sotto” (locuzione di controversa interpretazione: per alcuni riferita allo zoccolo dipinto nella basilica superiore, ma per altri indicante il transetto e le cappelle della chiesa inferiore); e Giorgio Vasari, nella seconda edizione delle Vite (1568), riprende la stessa attribuzione a Giotto per le Storie di san Francesco.

L’iconografia delle Storie di san Francesco segue, nella scelta dei ventotto episodi, la narrazione della Legenda Maior di san Bonaventura da Bagnoregio, scritta tra il 1260  e il 1263, e che a partire dal 1266 diviene l’unica biografia ammessa dall’Ordine; anche le iscrizioni che corrono lungo il margine inferiore delle singole scene derivano dallo stesso componimento agiografico. I temi iconografici selezionati per gli affreschi di Assisi divennero subito modello normativo per i vari cicli pittorici dedicati alla vita del santo, e a partire dai primi anni del Trecento si diffusero e furono eseguiti soprattutto in Italia centrale.Le Storie di san Francesco si dipanano con una sequenza narrativa che corrisponde all’ordine cronologico di esecuzione: il ciclo inizia sulla parete di destra della navata  a partire dall’incrocio con il transetto – da cui potevano ammirarlo i frati seduti sui centodue  stalli del magnifico coro ligneo dell’abside e il papa sul suo trono cosmatesco – continua sulla stessa parete, proseguendo con due scene in controfacciata ai lati del portale d’ingresso, svolgendosi poi sulla parete sinistra, per concludersi tornando di nuovo accanto al transetto. 

“Rispetto alle scene vetero e neotestamentarie dei registri superiori, i riquadri che compongono il ciclo francescano presentano una radicale diversità nel sistema d’impaginazione della parete. Gli episodi della vita del santo sono infatti disposti lungo le pareti della navata a gruppi di tre per parte in ognuna delle quattro campate, eccezion fatta per la prima a partire dall’ingresso dove se ne trovano quattro. Ogni “trittico” di scene è racchiuso da un’incorniciatura architettonica dipinta, composta da colonnine tortili – due alle estremità e due a dividere le scene – di tipo cosmatesco che sostengono un architrave con motivi a cassettoni e mensolette. Questi ultimi elementi, come pure i capitelli e le basi delle colonnine, sono prospetticamente centrati sull’asse mediano dell’intero “trittico”, e non su quello delle singole scene: le quali, peraltro, sono regolate da un sistema spaziale autonomo rispetto all’incorniciatura complessiva. Esse si svolgono quindi “al di là” del piano individuato dalle quattro colonnine e dai cassettoni in scorcio dell’architrave, in una sorta di trompe-l’oeil, che suggerisce un superamento della superficie parietale e, soprattutto, crea una relazione tra lo spazio  dell’azione “scenica” degli affreschi e lo spazio “reale” della navata. Regolate quindi da una visione prospettica autonoma rispetto all’incorniciatura architettonica, le singole scene del ciclo elaborano al loro interno  una concezione dello spazio – e delle figure umane che in esso agiscono – che si presenta in costante perfezionamento. Dalle incertezze di collocazione spaziale dei personaggi nelle prime scene (Omaggio di un uomo semplice, Sogno del palazzo con le armi) si passa a rapporti visivi tra ambiente architettonico e figure umane sempre più coerenti (Approvazione della regola, Visione dei troni), fino a raggiungere livelli di elevata complessità in scene come il Presepe di Greccio, con la famosa immagine del retro della croce dipinta inclinata in un ardito scorcio, o come l'Apparizione al capitolo di Arles, con la panca scorciata sulla destra ove siedono tre frati raffigurati di schiena. 

E, ancora, l’immagine del crocifisso in scorcio, stavolta visto di fronte, ritorna, dominante dall'alto dell'iconostasi, nell’Accertamento delle stimmate. Nel complesso quindi, il ciclo francescano di Assisi, nella basilica superiore della chiesa intitolata al santo, appare come l’opera di un maestro in formazione che si misura con le possibilità di lettura e di elaborazione offerte da uno spazio pittorico inteso in senso illusionistico e tridimensionale”. (Alessandro Tomei, GIOTTO-Art Dossier)Il poliedrico cantiere della basilica di san Francesco, che ha visto all’opera molti artisti, sembra comunque fortemente dominato dalla personalità di Giotto che assorbita la lezione dei maestri più anziani – Cimabue, Arnolfo di Cambio, Torriti –, apporta soluzioni innovative (e tali vengono realmente percepite dai suoi contemporanei colti e meno colti), narrando in maniera sintetica, concentrando le composizioni delle varie scene sull’evento che vuole rappresentare che diviene così facilmente comprensibile grazie anche agli atteggiamenti naturali dei personaggi i quali si trovano a compiere gesti ora maestosi ora semplici, scambiandosi sguardi significativi ed emanando un’umanità profonda. 

Inoltre, la vicinanza cronologica con i fatti narrati (non è trascorso neanche un secolo dalla morte del santo al momento in cui Giotto dipinge i suoi capolavori datati 1295-1297/1299), gli permette di ambientarli in un mondo ancora molto simile alla realtà contemporanea; anche la figura del santo non appare più avvolta in un alone leggendario come era stato fino ad allora per tutte le narrazioni sacre bizantine, ma viene definita storicamente e calata all’interno della contemporaneità. Le Storie di san Francesco rappresentano dunque una grande novità  rispetto ad altri cicli del tardo Duecento, fiorentini e romani. Ed infatti Giotto – il loro più che probabile autore – divenne per i contemporanei l’assoluto protagonista e dominatore del panorama figurativo del tempo, e per noi rappresenta l’artista-simbolo dell’intero Medioevo. Tra i suoi contemporanei più illustri è Dante, che, inserendolo nella sua Commedia, offre la più autorevole testimonianza, nella celebre terzina, circa l’eccellenza e la fama che all’epoca era riconosciuta a Giotto:

“Credette Cimabue nella pintura

Tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,

Sì che la fama di colui è oscura”

 Purgatorio, Canto XI, 94-96 (circa 1310)

A Giovanni Boccaccio, inoltre, si deve nel 1350, la prima valutazione critica delle novità apportate dall’arte giottesca. Nella quinta novella della sesta giornata del suo Decameron il poeta infatti dice: ”ebbe uno ingegno di tanta eccellenza, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de’ cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi piuttosto dessa paresse, intanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo essere vero che era dipinto. E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni che più a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere allo ‘ntelletto de’ savi dipignendo intendevano, era stata sepulta, meritatamente una delle luci della fiorentina gloria dirsi puote”.

In questa pagina è evidente il risalto dato sia alla capacità di Giotto di ritrarre il vero, il naturale, sia il merito di aver richiamato in vita l’arte classica degli antichi che era stata a lungo ignorata e soppiantata dall’arte bizantina.Lo stesso fa notare Cennino Cennini nel suo Libro dell’arte del 1390 circa, in cui afferma: “Rimutò l’arte del dipingere di greco in latino, e ridusse al moderno; et ebbe l’arte più compiuta ch’avessi mai più nessuno”.  Turismo scolastico religioso Alloggio suora Roma Torna Itinerari  Francescani - Disponibilità Hotel Roma